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Dall’ultimo post, da Seattle, ho spiccato un volo QUASI definitivo di ritorno in Italia.
Non che in USA non sia tornata più: anzi!
Ho cominciato a fare avanti e indietro sull’Oceano: spesso, molto spesso.

Ma un’altra occasione di vivere in USA non l’ho poi accettata.
Era un luogo un po’ desolante, per me: credo sia immediatamente dietro a New York, nei desideri esterofili di tanti, ma io ne sono respinta
(è Los Angeles, per i più curiosi).

Insomma, su e giù non è tanto male.
Ciò non toglie che abbia crisi di nostalgia e desideri e talvolta anche progetti.
Ma poi la vita ti riprende, ovunque tu sia. E da questa parte dell’Oceano, quella Europea, ci sono tanti legami fissi, imprescindibili, veri e vitali.

Vedremo.
Continuo a credere di avere un futuro.

Fra i mille stereotipi dell’Italia in USA c’è naturalmente quello del bel canto.
E qui, chiedendo venia ai veri estimatori di questa arte, imperversa Bocelli.
Che, oltre tutto, come se non bastasse, coltiva anche un alto stereotipo italiano, quello del produttore di vino.

Ecco quindi il suo vino, trovato in un supermercato del North West.

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(Grazie alla mia amica pittrice Pam Ingalls per essersi prestata a fare da presentatrice del marchio)

E, visto che ci siamo, avete mai sentito parlare di questa quintessenza della italianità?

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Cultura non è solo una delle biblioteche piú belle del mondo (per specialismo)

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Cultura è anche bellezza e simbolo

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È anche offrire gentilezza insieme alla memoria e all’oggi

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Cultura sono società che interagiscono

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Cultura è anche saper offrire un attimo di relax

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In questo periodo, al Newseum (=museo del giornalismo) di Washington DC c’è una mostra dedicata ai Kennedy che si intitola “La creazione di Camelot”.
Infatti nessuno può negare che proprio grazie ai media, prima sapientemente orchestrati e poi che lavoravano da soli sull’onda lunga di quelle vite straordinarie, a metà strada fra la tragedia e il jet set, sia stata creata una vera saga, degna della Tavola Rotonda, densa di cavalieri, dame, maghe incantatrici e ricerca del Graal

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In parte la stessa cosa sta accadendo anche intorno agli Obama.
Giovani, belli, col fascino del potere e della novità, simbolo di dove oggi possono arrivare quegli Afro-americani fino agli anni 70 ancora fatti segno di persecuzioni razziste e segregazione in molti stati del sud.

In questo filone della costruzione del mito si situano immagini e oggetti di tutti i generi, comunicazione, talk shows, oggetti e libri.

Come questi, dedicati ai genitori di Obama (quello sul padre scritto da lui stesso prima di assurgere alla presidenza).

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O questo merchandising, a dir poco bizzarro

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anche le bamboline con le fattezze (o i nomi, almeno) delle figlie: la “Sweet Sasha” e la “Marvellous Malia”

Che poi….che nomi!! bah! Nessuno è perfetto.

Non ci sono scappatoie che tengano: siamo sempre il paese della pizza e qualunque pizzeria, in giro per gli Stati Uniti, deve – necessariamente deve – avere qualche riferimento all’Italia.

Eccone quindi una piccolissima collezione:

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Dal riferimento geografico-culturale (Pisa e la torre pendente, non proprio collegate nel nostro immaginario italiano alla pizza)

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All’abbinamento con l’opera: altro classico stereotipo di italianità .

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Ad una pizzeria italiana di nome ma kosher di fatto: come si vede dall’avventore munito di kippah altrettanto quanto il pizzaiolo.

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Fare la First Lady è un vero e proprio lavoro, negli Stati Uniti, assurgere ad un ruolo importante e non solo decorativo, diventare una figura di riferimento, morale e d estetica.
E, in alcuni casi, anche politica, come hanno ben dimostrato Eleanore Rosevelt e, in modo ancor più spiccato ed individualista, Hillary Clinton.
Non ci metto molto a credere che anche Michelle Obama possa in futuro fare un pensiero ad una carriere politica, tanto pare determinata, socialmente dedicata e perfetta dal punto di vista dell’immagine e del marketing.
Oltre tutto ha saputo porsi (e riciclarsi) come una vera fashion icon American style, come non se ne vedevano dai tempi di Jacqueline Kennedy.

A questo proposito è interessante studiare l’evoluzione dei costumi e della proposta femminile che si riesce a cogliere dallo stile personale (ma certo molto studiato e suggerito da un apposito staff) delle First Ladies degli ultimi 50 anni, in una situazione ufficialisima ed iconica come il ballo della inaugurazione presidenziale.
Si scoprono mondi e si fanno raffronti generazionali.

JACQUELINE KENNEDY

Nel 1961, l’allor trentunenne bellezza della East Coast si guadagnò lo status di fashion icon entrando al braccio del marito, John F. Kennedy, indossando un abito bianco e un mantello realizzati su suo stesso modello.

L’abito era semplicemente splendido, sottolineava la figura perfetta della giovanissima First Lady, donando grazia col motivo del semibolero in chiffon che in parte minimizza il motivo a intarsi preziosi del top.
Si notino i lunghissimi guanti a compensare l’effetto delle braccia nude.
Una scelta cui non si possono fare critiche di sorta, che il tempo non ha appannato.

LADY BIRD JOHNSON
L’allora 51enne, texana, nota col soprannome di “Lady Bird” (vero nome Claudia), scelse di dare un tocco di luminosità al ballo dell’inaugurazione del mandato del marito, Lyndon B. Johnson, nel 1965, con questo abito di seta gialla (con guanti in tinta sottotono) e scarpe adeguate.

Strati sovrapposti di maionese, mostarda e crema al limone andata a male (si sarebbe detto da noi).
Ma all’epoca negli Stati Uniti queste tinte brillanti, da cartone animato, spopolavano.
Vi ricordate gli abiti del film della Disney “Magia d’estate”, proprio di quegli anni? Io e mia sorella ne eravamo affascinate, da bambine

PATRICIA NIXON
Nel 1969, la 56enne Patricia celebra il mandato del marito Richard Nixon con un abito giallo pallido di satin abbinato ad un giacchino corto, ricamato.
Guanti bianchi alla Al Capone.

ROSALYNN CARTER
Probabilmente per dare un tocco di austerity al periodo di crisi economica che segnò il mandato presidenziale del marito, Rosalyn Carter nel 1977, a 49anni, fece una scelta di “riciclo”, presentandosi alla festa della inaugurazione con un abito già indossato nel giorno in cui Jimmy Carter era diventato governatore della Georgia, 7 anni prima.
Non che l’abito in sé fosse questo segno di austerità, comunque: una cappa di chiffon sontuosamente e pesantemente decorata da bordure ricamate in oro, su un abito sempre di chiffon, blue.

Comunque nella foto si fa notare la figlia, Amy, all’epoca di 9 anni.
Già non bellissima di suo, la poverina sembra uscita da un film di Harry Potter, con quegli occhialoni tondi e la cappa viola di velluto.

NANCY REAGAN
La moglie di Ronald Reagan, all’epoca 59enne, diede il via ad una nuova epoca di glamour alla White House, a partire dal 1981
Evidentemente erano anni, quelli, anche oltre Oceano, di fasti da nuovi ricchi: poco gusto e molta ostentazione; gli anni, per intenderci, in Italia, di Craxi e della “Milano da bere”.
Al primo mandato presidenziale, Nancy si presentò con questo abito molto teatrale, in pizzo, fasciante e con una spalla nuda.

Al secondo mandato è evidente che sono passati gli anni (in senso anagrafico: un invecchiamento forte, se si pensa che si tratta solo di 4 anni!) e la zarina d’America deve “accontentarsi” (si fa per dire) di un completo più tradizionale, spezzato, ma pur sempre bianco e tempestato di pietre brillanti. Sempre fedele al suo stile di abiti a tubino, Nancy sapeva indubbiamente quale era la linea che la valorizzava, particolarmente adatta ad una figura “petite” che non si sarebbe certo avvantaggiata di eccessive aggiunte tipo gale o fiocchi o volant, puntandoinvece su tessuti di estremo (eccessivo) pregio.

BARBARA BUSH
Barbara Bush aveva 63 anni all’inaugurazione della presidenza del marito, nel 1989, non faceva niente per nasconderli, ma devo dire che il suo stile e la non-chalance con cui ha sempre portato la chioma bianca (che le ha valso l’appellativo di Silver Fox) erano gradevoli. Naturalmente soldi e accessori aiutano (vedere il triplo giro di perle ENORMI)
Ma anche una scelta coraggiosa, come il blu acceso di questo abito, cucitole addosso per nascondere e valorizzare, è da ammirare.

HILLARY CLINTON
Mai amata questa donna: fredda, calcolatrice, divoratrice della carriera altrui, arrampicatrice e cattivissimo role model per le donne americane (si veda la grottesca vicenda di Monica Lewinsky).
L’abito di pizzo di Oscar de la Renta, indossato a 45 anni di età, nel 1993, era viola: un segno delle traversie di là a venire?

LAURA BUSH
La moglie di George W. Bush sembrava avere molti problemi a confrontarsi con gli ingombranti modelli delle First Ladies che la avevano preceduta. Le scelte di due abiti così diversi, il rosso acceso del 2001 e il bianco tempestato di pietre preziose e vagamente trasparente e rivelante del 2005, per niente in carattere col suo tipo di bibliotecaria quasi dimessa, dimostrano come fosse ostaggio di consiglieri non avveduti, che ragionavano per categorie e non in base alla persona che avevano davanti.

MICHELLE OBAMA
E infine l’attuale First Lady, la creazione (molto individuale e indipendente) di un modello senza altri modelli precedenti, per tipo fisico, per caratteristiche sociali profondamente mutate, per desiderio di conferire a Michelle un senso di rottura con la tradizione e di novità assoluta anche in tema di abbigliamento.
Le due scelte delle due feste della inaugurazione dimostrano una evoluzione del pensiero e dello stile di Michelle e il suo sentirsi a maggior agio nel progredire della carriera.

Ci dobbiamo sempre ricordare che qui siamo in una città meridionale.
Washington DC venne fondata sul confine della Virginia, immediatamente al di là della Confederazione degli Stati del Sud (ricordate? La capanna dello Zio Tom, Via col Vento e tutto il resto?).
E come in tutto il “sud” del mondo, la gente è espansiva, cordiale, chiaccherona.

Abbastanza.
La gente comune, voglio dire.
Perché poi Washington DC è anche la città del governo e impiegati e funzionari governativi la riempiono per 5 giorni alla settimana, conferendole spesso quell’aria così uguale a tutte le altre capitali del mondo. Potresti essere nella City di Londra, o nella zona ministeriale di Parigi: tutti vestiti rigirosamente di nero, giacca e cravatta, donne in tailleur, borsa portacomputer. E, qui, immancabile bicchiere di cartone con beverone sciaquonoso detto “caffè”! (bleah)

Per il resto, la gente comune è allegra, tende ad essere colorata, anche di pelle.
Pare che sia la città con la maggior percentuale di neri degli Stati Uniti. Io vedo anche tanti indiani e afghani e pakistani, soprattutto tra i tassisti.

Cosi’ come, invariabilmente, i neri sono custodi dei musei (non curatori), lavavetri, portieri, camerieri.
Poi c’e’ naturalmente Obama: ma quella e’ un’altra storia

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