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Ho preso in prestito il titolo del post da una di queste mostre diffuse che sono attualmente in corso al Museum of Fine Arts di Boston.
“Please, be seated”, cioè “Prego, sedetevi”. Il contrario, cioè, di quello che si trova in genere scritto in tutti i musei: vietato toccare, vietato sedersi.
Una mostra diffusa, vale a dire sedie e sedili di varia foggia e materiale, design o opere d’arte così intese, pezzi unici, sparsi qua e là per il museo, spesso in luoghi strategici proprio per la sosta, con questo richiamo solo, la dicitura “please, be seated” a collegarli fra loro.

Ma non solo pezzi appartenenti alla mostra.
Tanti oggetti e tanti modi di riposarsi.

Anche Dio il settimo giorno si riposò.

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Dopo la naturale passione giovanile (giovanilissima, per quanto mi riguarda: me ne ero già stancata verso gli ultimi anni del liceo) per gli impressionisti, tendo a selezionarli, a scegliere solo qualche cammeo, a passare con aria di sufficienza per le sale sempre affollatissime dei musei che li ospitano.

Di tutti forse Renoir è proprio quello che mi piace di meno, ripetitivo e banale, la banalizzazione di se stesso, del mito dell’ “en plein air”, delle bis-bis-nipoti di Tiziano.

Ma certo ogni tanto si dà un’eccezione, come nel caso dei tre balli.

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Le Déjeuner des canotiers / Luncheon of the Boating Party, Washington, Phillips Collection

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Forse più del dipinto colpisce la maniera in cui esercita fascino sugli altri, i contrasti e le similutidini tra arte e vita.

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Ad un certo punto della visita, entri in una sala del Museum of Fine Arts di Boston, e inciampi nei 3 dipinti di Renoir dedicati al ballo.

Il ballo in città:

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Il ballo in campagna:

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Il ballo a Bougival:

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Wow! Ma se anche alla Gare d’Orsay ne hanno solo due!

E naturalmente è “solo” una mostra, una straordinaria mostra ambientata nel museo, il prestito delle due opere francesi al MFA di Boston che possiede il Ballo a Bougival. Una mostra “sui generis”, nella quale quasi non ti accorgi dei prestiti, se non sei proprio una persona che gira per musei per abitudine e che quindi ha ricordi, memorie, si pone domande.
Bello, però, questo understatement della mostra, di solito sbandierata e spudoratamente pubblicizzata anche se poi non c’è molto da vedere. Qui invece ti trovi 3 Renoir a figure intere, una rarità già di per sé, immersi nelle sale, lungo il percorso ordinario.

Ti viene quasi da considerarli degli amici, da cercare di abbozzare anche tu, un passo di danza.

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Ma sì, caro, ti ricordi?

E dopo Renzo Piano….chi altri se non Norman Foster?!
Il Museum of Fine Arts di Boston si è rivolto al grande studio britannico per un rinnovamento che entra fin nel cuore, nelle viscere del museo vecchio, scoperchiandolo, dandogli nuova vita, attorcigliandosi intorno alla modesta, granitica realtà precedente.

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Ed ecco dunque “Norman Foster & partners”, secondo la dizione con cui appare:

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E poi i suoi lunghi corridoi che fasciano i fianchi del museo, vissuti come uno spazio di meditazione, di contemplazione dell’esterno pensando a quello che nelle sale si è appena visto, decompressione prima di immergerai, di nuovo, nell’abisso dell’arte

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Forse solo un uomo che sa creare ponti leggeri come sogni, poteva cercare di mettere in contatto arte e mondo.

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A Boston (e a Cambridge, Massachusetts – mai dimenticarsi che, come da noi in certe zone della Toscana, per esempio, il fiume -l’enorme fiume Charles, qui – divide due entità rivali e antagoniste -) ….
Insomma, qui dicevo, in questo privilegiato angolo del New England, stanno rinnovando i musei, con rispetto e amore, ma anche con scelte culturalmente coraggiose, chiamando alcuni dei più grandi architetti moderni a dire la loro concorrendo o mettendosi al servizio di un “antico” appena appena vecchio.

Ecco quindi Renzo Piano che realizza l’ala dei servizi, discretamente appoggiata alle terga della gran dama di Boston, Isabella Stewart Gardner.

Una aggiunta alla sua casa-museo, un mostro in forme veneziane partorito dalle menti superegotische della gran Dama e di Bernard Berenson, non è una cosa facile.

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Renzo Piano si è tenuto accuratamente lontano da ogni tentativo, non dico (e non sia mai) di imitazione, ma nemmeno di integrazione. I due corpi vivono distiniti, uniti ma anche separati da una sorta di camminamento coperto, tutto realizzato in vetro, che costringe ad una immersione per transitare dalla luce degli spazi di Piano al Museo antico, angusto, sovraffollato, un camerino degli orrori, una wunderkammer dell’horror vacui.

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La nuova ala è destinata principalmente ai servizi, a sale educative, agli uffici, a polo espositivo per l’arte contemporanea e ospita una incredibile sala da musica “in verticale”.

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Tutta vetri e rame ossidato, la Renzo Piano’s addition realizza quindi un bel contrato di colori tra la sua dominante verde e il rosso dei mattoni della costrizione antica.

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Chissà mai, poi, perché a me Renzo Piano continua a sembrare un architetto da aeroporti?!

Il ritratto di Elizabeth Winthrop Chandler, un altro degli straordinari dipinti di John Singer Sargent, è senz’altro il capolavoro della National Portrait Gallery di Washington DC.

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La bellissima, giovane donna, qui ritratta all’età di 26 anni, viene descritta da Sargent stesso come la quintessenza della bellezza rinascimentale in epoca moderna: ” gli occhi di un bambino in un volto da Madonna”.
Eppure il ritratto, al di là della innegabile bellezza e dello status sociale elevato di Elizabeth, dà conto anche di un profilo psicologico, complesso, una donna certo più matura, interiormente, della sua età.
Rimasta orfana in giovanissima età, la ragazza si era occupata della crescita di ben sette, fra fratelli e sorelle, più giovani di lei.
La posa della donna, la calma quieta della sua espressione, mostrano una consapevolezza ed una padronanza della scena non comuni. Ma al tempo stesso Sargent conferisce un senso di agitazione e quasi angoscia che si esprime, nella parte bassa del dipinto, in quelle mani abbandonate eppure strette l’una all’altra, nell’appoggiarsi sulla pila di cuscini, uno sopra all’altro, precari, che costruiscono quasi un puntello alla figura, quasi a conferire sostegno e compensare un disequilibrio.

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E ancora oggi te ne puoi innamorare

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Alla National Portrait Gallery (uno dei musei dello Smithsonian)

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insieme ai più o meno paludati ritratti presidenziali (vi risparmio i mille George Washington dalla parrucca impermanentata), ce ne sono di più ironici o strani:

Un Richard Nixon quasi simpatico

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Un George Bush padre in corsa che sembra una statua di Giacometti

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impegnato nel lancio del ferro di cavallo….

Un Clinton “frantumato”

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Poi qualche First Lady.
La cuffiamunita Martha Washington

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Jacqueline Kennedy, lady di cuori

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Segue poi una quantità, piuttosto casuale ed eterogenea di personaggi che si identificano con coloro che hanno fatto grande l’idea di America, in patria e fuori dei vastissimi confini nazionali.

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Katherine Hepburn e i suoi 4 Oscar

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Maria Callas

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Bill Gates

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Toni Morrison

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Leonard Bernstein

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George Gershwin

Ma poi….riconosceteli voi:

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San Giorgio (particolare), Maestro dell’altare di San Bartolomeo

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Martha Washington, moglie del primo presidente degli Stati Uniti

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Un vero Amish e un ebreo osservante

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Ancora dai musei:

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Giulio Romano, Madonna col Bambino e San Giovannino

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Angolo Bronzino, bambino di casa Medici

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La splendida Giulia de’ Medici ritratta da Bronzino insieme con Maria Salviati

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Un Bambino Gesù di Bernardo Strozzi

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Un altro Bambino dormiente di Bartolomeo Schedoni

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El Greco, Madonna col Bambino e le Santa Agnese e Martina

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Juan de Flandes, Annunciazione
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Edward Hopper, Cape Cod Evening

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Master of Heiligenkreutz, Morte di Santa Chiara

Oggi un giro alla National Portrait Gallery, uno dei musei dello Smithsonian (se ne contano almeno otto!). Un “giro” vuol dire passarci la giornata in modo più o meno emozionante, fra ritratti di presidenti (la maggior parte per me sconosciuti……almeno fino ai tempi più recenti), foto di star del cinema, enormi tele celebrative dell’epopea dell’West, statuette dell’Oscar e un po’ di arte iper realista.
Ad un certo punto nel bellissimo cortile coperto è cominciato un concerto, un concerto un po’ particolare

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La Symphony Orchestra del Garmer College della University of Maryland, un ensemble di più di 120 tra orchestrali e coro, ha offerto un concerto esclusivamente dedicato a colonne sonore di video games arrangiati per orchestra.
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È stato un concerto bellissimo, emozionante, belle voci, musica interessante, spesso ai confini del dodecafonico.
L’occasione era quella della mostra, in corso al museo, dal titolo “The Art of Video Games”. Una mostra stupefacente, per l’idea stessa. Il video game che esce dal ghetto dell’effimero, del perditempo, del prodotto di consumo. Per essere studiato e condiviso per quello che è, una manifestazione della nostra epoca. Forse anche arte, perché no?

E anche il pubblico era arte:

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