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Dall’ultimo post, da Seattle, ho spiccato un volo QUASI definitivo di ritorno in Italia.
Non che in USA non sia tornata più: anzi!
Ho cominciato a fare avanti e indietro sull’Oceano: spesso, molto spesso.

Ma un’altra occasione di vivere in USA non l’ho poi accettata.
Era un luogo un po’ desolante, per me: credo sia immediatamente dietro a New York, nei desideri esterofili di tanti, ma io ne sono respinta
(è Los Angeles, per i più curiosi).

Insomma, su e giù non è tanto male.
Ciò non toglie che abbia crisi di nostalgia e desideri e talvolta anche progetti.
Ma poi la vita ti riprende, ovunque tu sia. E da questa parte dell’Oceano, quella Europea, ci sono tanti legami fissi, imprescindibili, veri e vitali.

Vedremo.
Continuo a credere di avere un futuro.

Ci dobbiamo sempre ricordare che qui siamo in una città meridionale.
Washington DC venne fondata sul confine della Virginia, immediatamente al di là della Confederazione degli Stati del Sud (ricordate? La capanna dello Zio Tom, Via col Vento e tutto il resto?).
E come in tutto il “sud” del mondo, la gente è espansiva, cordiale, chiaccherona.

Abbastanza.
La gente comune, voglio dire.
Perché poi Washington DC è anche la città del governo e impiegati e funzionari governativi la riempiono per 5 giorni alla settimana, conferendole spesso quell’aria così uguale a tutte le altre capitali del mondo. Potresti essere nella City di Londra, o nella zona ministeriale di Parigi: tutti vestiti rigirosamente di nero, giacca e cravatta, donne in tailleur, borsa portacomputer. E, qui, immancabile bicchiere di cartone con beverone sciaquonoso detto “caffè”! (bleah)

Per il resto, la gente comune è allegra, tende ad essere colorata, anche di pelle.
Pare che sia la città con la maggior percentuale di neri degli Stati Uniti. Io vedo anche tanti indiani e afghani e pakistani, soprattutto tra i tassisti.

Cosi’ come, invariabilmente, i neri sono custodi dei musei (non curatori), lavavetri, portieri, camerieri.
Poi c’e’ naturalmente Obama: ma quella e’ un’altra storia

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Non sia mai che la capitale degli Stati Uniti si faccia trovare impreparata di fronte a qualsiasi evento!
Quindi, eccoci qui: dicono che oggi è il primo giorno di primavera? E allora che primavera sia!
Anche se la temperatura è sempre pericolosamente vicina allo zero (e di notte ben “below”).
Anche se il meteo minaccia neve un giorno sì e uno no.
Ma se dev’essere primavera, che primavera sia!
La Pennsylvania e la Constitution Avenue, con le loro piazze alberate, si preparano. Ecco le avanguardie:

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Sì, days, al plurale.
Perché noi, per fare questo casino che abbiamo fatto, ci mettiamo anche due giorni. Quasi ci stessimo a riflettere di più!

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Qui dove sono io, mi guardano un po’ con commiserazione, un po’ cercano di farmi coraggio. Ci sono persone di moltissime nazionalità, ma tutti, assolutamente tutti, avevano ben chiaro per chi non avremmo dovuto votare. E per tutti (ma più ancora per me) è altrettanto incredibile pensare ad un’Italia così.
Mi hanno definito la nostra situazione come uno “smash and grab” (sfascia e arraffa).
Rende l’idea e anche l’onomatopea è azzeccata.
Assentisco e inghiotto amaro, tanto amaro.
(Quasi quasi partecipo alla prossima lotteria per la green card)

Dupont Circle è un bel quartiere storico, residenziale e un po’ bohémienne, della zona nord di Washington (DC, sempre e rigorosamente), pieno di belle case di fine ottocento a due-tre pani in mattoni, vie alberate e qualche museo, di quelli da rimanere a bocca aperta, come la Phillips Collection.
Oggi però non vi parlo di musei, ma di mercati. Che, chi mi conosce lo sa bene, sono un’altra delle mie sconsiderate passioni. In fondo c’è lo stesso gusto, del passare da una sorpresa all’altra, tutte accatastate insieme, molte nascoste o misconosciute. Con in più la possibilità dell’acquisto (della collezione, direi)

A Dupont Circle, tutte le domeniche, si tiene un mercato di generi alimentari, di prodotti di fattorie biologiche. Una specie della Conf. Coltivatori Diretti, che però da noi ha poca allure e sembra una cosa tristanzuola, da retrobottega della casa del popolo di Rifredi. Qui invece è il non plus ultra dello chic (e del radical chic).

Basta vedere i prezzi. Oggi li ho fatti morire del ridere dicendo che mi volevano far pagare anche l’aria che respiravo…..che da noi si dice, ma immagino che per un americano sentirsi dire “Come on: you are trying to charge me also the fresh air”, non sia proprio comune…

Basta vedere la gente che lo frequenta: ex-hippies, intellettuali smessi, finti butteri maremmani (o forse montanari degli Appalachi), signore bio dalla testa ai piedi e una valanga di vegetariani vegani (tanto che gli producono appositamente anche panacee al posto del formaggio o delle uova).

Eccovi un po’ di iconografia locale. Spassosissima.

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Questo “Cavolo Dinosauro” non è altro che il nostro, domestico, cavolo nero!

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Ma un po’ di lardo, appena appena, non può mancare, nemmeno in un luogo così chic e alternativo.

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Così come questi durissimi, stecchiti, bastoncini di carne di bufalo.

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Poi dei calzini di lana grezza, una cosa da tortura cinese o da quaresima dei frati trappisti, ve lo assicuro, avendoli tastati.

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Poi, siccome siamo “biologici” ma moderni, eccoci anche sui social network!

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E per concludere volevamo privarci della pizza? Non sia mai!
Pizza da colazione!
(Per noi un po’ come tutti quei cavoli di sopra, ma a merenda!)

Si sa, l’Italia ha almeno il primato del buon cibo, nel mondo.
E gli Stati Uniti vanno pazzi per quello che è italiano. O meglio: per la “loro” idea di Italia.

E anche col cibo mettono in opera quello spirito di conquista e colonialista che li ha resi il paese che sono: grande, enorme, potente, pieno di orgoglio per le proprie risorse economiche morali e militari…..e innegabilmente carta assorbente, che prende il meglio possibile del mondo circostante per poi trasformarlo a proprio uso e consumo e riadattarlo al proprio modus vivendi.

Eccoci quindi alle sempre godibilissime visite ai supermercati, cercando tra gli scaffali qualche cibaria italiana (sì perché quest’anno con me c’è anche il mio figlio Numero Quattro e con lui non si scherza: si DEVE mangiare italiano!).

Ecco allora la mitica pasta italiana.
con la marca ci siamo, ma che buffo vedere i nomi in inglese!

cut spaghetti

Thin Spaghtti Thick Spaghetti elbows

Qui si comincia con le marche locali
(sempre santi, mi raccomando: come si sa siamo un popolo di santi, navigatori e poeti)

san giorgio

E un nome che solo vagamente sembra italiano…chissa’….

egg pappardelle

Accanto alla pasta si vende anche l’immancabile colapasta, un “arnese” che evidentemente non e’ proprio comune qui, che va comprato ad hoc.

colapasta

E poi i condimenti per la pasta
Notare le marche: per essere italiano devi chimarti per forza “Da Vinci” (coime il Codice). Peccato che Leonardo non si chiamasse cosi’, ma quella fosse solo una indicazione di provenienza e venisse cosi’ indicato in quanto figlio illegittimo del padre notaio. Altrimenti sarebbe stato un comunissimo “di ser Piero”, meno IN, certamente, meno adatto ad un Codice e ad una marca di mangiare vaghissimamente italiano

Da Vinci p[esto Da Vinci verde ragu sughi

Qui si comincia a svarionare.
Qualcuno di voi ha mai mangiato a casa della mamma o della nonna una pasta al sugo di Vodka????
bello poi questo essere affiancato al trivialissimo sugo alla puttanesca.
Come dire Anna Karenina accanto alla Samantha del Grande Raccordo Anulare.

Poi un condimento per la carne alla brace, un ‘dressing” allo stile del nord Italia (mah!) al sapore di basilico (sulla bistecca???) e di pecorino romano (ogni commento e’ superfluo).

dressing northern italy

Poi questa chicca per palati raffinati: Dovrebbero essere tortelli alla zucca.
E gia’ il nome ‘SQUASH” e’ tutto un programma, come onomatopea, per noi.
Ma vi consiglio di leggere attentamente l’ingrediente aggiunto, il flovour, insomma: burro di noci.

Squash ravioli

E per concludere non potevano mancare loro, i 3 ambasciatori per eccellenza dell’Italia all’estero: Venere, l’olio e Botticelli.
In questo caso tutti insieme appassionatamente!

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Una foto di un tramonto.
Ma tanto rosa da sembrare un’alba.
Passando dal corridoio di questo luogo di nuovo mio, la luce mi ha colpita; e con la luce, la visione.

Stanotte è nevicato, una neve leggera, presto sparita. Vento gelido, cielo terso.
Ma la luce rosa di questo febbraio appena cominciato sembra già primavera.

Bentornata, sì.
Bentornata in USA.
Bentornata a Hogwarts.

Se ne fanno di belli e di brutti, naturalmente.
Ma i miei preferiti sono di Terzo Tipo:

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con Bicci di Lorenzo, a Baltimora, Walters Art Gallery
Per la serie “il primo amore non si scorda mai”!

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frammento di Croce spoletina, il cosiddetto “Sozio”, sempre a Baltimora
(e per chi mi capisce: no, non c’era l’immancabile Ann Driscoll!!!!)

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con Martina Bagnoli e Carl Strehlke: chissà cosa c’è!

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la mia patrona
(e un po’ di ammirazione va anche ad Orazio Gentileschi, perché no? cattivo padre, ma ottimo pittore).
Comunque questo dipinto è un bel puzzle…..sarà un Gentileschi o un Lanfranco? E se sono tutti e due insieme, chi ha fatto cosa?

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Ora basta con Leonardo e i leonardeschi….e un se ne po’ più!

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Con Thomas Jefferson…..teniamo le distanze: il tizio non mi piace più per niente!

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Se non finisce questo fellowship, mi sa che questi incontri diventano di QUARTO TIPO

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Philip de Laszlo, Ailsa Mellon Bruce

Devo a questa bellissima signora, nata a Pittsburgh nel 1901, se mi si apre l’avventura.
Sono stata infatti insignita di un Visiting Senior Fellowship che porta il suo nome, per i fondi da lei lasciati allo Smithsonian a questo scopo……(immagino…..anche se probabilmente la strada non è così diretta).
del resto nel 1957 era stata stimata nel novero delle 8 persone più ricche degli Stati Uniti.
be’, un po’ di beneficenza era d’obbligo.
spero facesse anche quella caritativa.

Ma quella culturale, comunque, non è da tutti. Lasciatemi dire che in questi tempi bui una gran dama del genere sembra n faro luminoso.

(per una biografia di Ailsa Mellon Bruce, anche un po’ triste, per la serie “anche i ricchi piangono”, andate QUI)